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TIM: il disservizio di Whatsapp è costato 40.000 euro

Il disservizio generalizzato che lo scorso 25 ottobre ha riguardato Whatsapp è costato a TIM ben 40.000 euro. Se vi state chiedendo cosa c’entri un problema a livello globale di un servizio di messaggistica (gestito da una tech company americana) con un operatore telefonico italiano sappiate che non siete soli, eppure un collegamento diretto c’è ed è stato confermato dallo stesso amministratore delegato di TIM.

Pietro Labriola ha parlato infatti della questione in un post pubblicato sul proprio profilo LinkedIn. Il CEO di TIM ha raccontato che durante le 3 ore di down di Whatsapp il servizio clienti TIM è stato preso di mira dagli utenti che, non avendo capito né la portata generale del problema, né che esso fosse imputabile unicamente a Whatsapp stesso, si sono messi a chiedere informazioni sul disservizio al loro operatore telefonico, in questo caso TIM, tanto da far schizzare il numero di contatti al call center del 310% in più rispetto alla media.

Di seguito riportiamo integralmente quanto scritto su LinkedIn da Pietro Labriola:

Il 25 ottobre ci sono state 3 ore di down di #Whatsapp a livello globale. A chi si sono rivolti tutti coloro che hanno reclamato il disservizio? A noi di TIM, che offriamo servizi di telecomunicazioni, ovviamente!
Voglio scusarmi personalmente con tutti coloro che non abbiamo aiutato e a cui non siamo riusciti a dare informazioni. Questa però è anche l’occasione per spiegare cosa succede in questi casi.
In sole 3 ore il call center di TIM ha ricevuto il 310% in più di chiamate rispetto alla media: in 3 ore 65.000 clienti si sono rivolti a noi perché pensavano che potessimo aiutarli a risolvere il problema e dare loro informazioni puntuali.


Purtroppo, non solo non possiamo garantire la continuità dei servizi digitali degli #OTT che sfruttano le nostre infrastrutture, ma questi non sono neanche tenuti a darci informazioni puntuali sul disservizio e sui tempi stimati di ripristino del servizio, in modo da metterle a disposizione dei nostri clienti.
Il paradosso è che in quelle 3 ore TIM ha sostenuto tutti i costi dell’informazione, senza che questo portasse alcun beneficio ai nostri clienti. Ce lo dice chiaramente l’indice di soddisfazione che monitoriamo alla fine di ogni contatto con il call center, che è sceso addirittura di 1 punto nella scala da 1 a 10.


Questo paradosso mette in luce un aspetto economico importante: a un Operatore come TIM 3 ore di queste informazioni al cliente costano circa 40.000 euro. Gli OTT non hanno alcun obbligo, di conseguenza non sopportano alcun costo e ribaltano l’effetto del disservizio sugli operatori delle telecomunicazioni.


Quello di ieri è stato un caso isolato? No, come emerge dall’indagine annuale di Mediobanca sulle TLC, è solo una delle tante circostanze che rendono concreta e tangibile la necessità di ridefinire le regole del gioco nel nostro settore, e in particolare in Italia.

Ogni chiamata che un utente effettua al servizio clienti si traduce in un costo per l’operatore che si appoggia a quel determinato call center inbound deputato a rispondere. Considerando che ormai quasi tutti i centri di assistenza telefonica funzionano in appalto e non fanno parte di strutture integrate all’interno degli stessi operatori, va da sé che i contratti tra chi fornisce il servizio e l’operatore che ne usufruisce si basi sul numero di chiamate ricevute e risolte. Numero che, come avvenuto l’altro giorno durante il blocco di Whatsapp, ha subito un vero e proprio boom in poche ore facendo di conseguenza schizzare le spese per l’operatore.

Pietro Labriola ha quindi cercato di cogliere la palla al balzo per chiedere ancora una volta la ridefinizione delle regole che riguardano il delicato rapporto tra operatori di telecomunicazioni e piattaforme OTT. Al centro del dibattito in questo è finita l’erosione del giro d’affari delle telco relativo ad SMS e chiamate vocali, due servizi che negli ultimi anni sono ormai stati quasi del tutto (soprattutto i primi) sostituiti proprio da Whatsapp, Telegram e affini.

Da un lato, quindi, le app di messaggistica hanno tolto agli operatori una parte non indifferente del loro business e dall’altro, come in caso di problemi simili a quello avuto da Whatsapp martedì scorso, contribuiscono indirettamente a causare spese non dovute ad aziende già alle prese con margini risicati, nonché costrette ad operare in un mercato fortemente competitivo.

Si può pensare a buon ragione che quanto avvenuto a TIM sia capitato l’altro giorno anche ad altri grossi operatori, magari con proporzioni ridotte per volume di chiamate e costi sostenuti in rapporto alla quota di mercato detenuta da ciascuno, ma il problema in ogni caso rimane e apre uno scenario tanto inedito per il pubblico quanto meritevole di riflessione per chi, invece, è chiamato a regolare il settore allo scopo di garantire una piena sostenibilità a tutti gli attori in scena.

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